- Te lo diceva sempre tua nonna: “piccolo mio, sbagliando si impara”. Quanto aveva ragione… Spesso l’unico modo per andare avanti è inciampare, rialzarsi e ripartire da zero mettendo in pratica le sagge lezioni ricevute. È utile anche se a sbagliare è chi ci sta di fianco. Per questo bisogna ascoltare le storie di quelli che ci hanno provato prima di noi (di quelli che hanno avuto successo, ma anche di quelli che hanno fallito), per imitarli nelle loro mosse giuste ed evitare di cadere nei loro stessi errori.
Oggi vi racconteremo una di quelle storie. Tutto è accaduto in uno stato che ha il nome di un fiume, il Colorado, situato ad ovest degli Stati Uniti e famoso in tutto il mondo per le sue Montagne Rocciose, la sua capitale (Denver) e, da poco, per essere la prima regione della nazione nordamericana in cui la marijuana per uso ricreativo è legale.
Il 1° gennaio, scoccato il dodicesimo rintocco, è entrato in vigore l’emendamento 64, che permette agli abitanti del luogo e ai turisti di entrare tranquillamente in un negozio, avvicinarsi al bancone, chiedere tre grammi di marijuana, andarsene a casa, farsi una canna e fumarsela tranquillamente senza pensare se durante il tragitto li fermerà la polizia. Questo è uno degli aspetti. Un altro aspetto è che sarà permesso che la produzione, la distribuzione e la vendita di questa erba fiorisca come non mai (e mai usata espressione migliore).
In ogni modo, in Colorado esiste già un settore economico prospero, sviluppatosi sul consumo della cannabis, fino a questo momento legale a scopo terapeutico. Il suo percorso è l’esempio da seguire per paesi come il nostro, in cui il divieto potrebbe, e dovrebbe, essere tolto presto. Che fare quando le droghe leggere usciranno dalla clandestinità? Come dare forma a un promettente tessuto imprenditoriale partendo da un mercato nero controllato dalle mafie e dagli spacciatori? Vediamo cosa accadde nella terra delle Montagne Rocciose.
Terzo millennio, prima canna
Torniamo indietro all’anno 2000, quando gli elettori del Colorado dissero di sì all’emendamento che ha legalizzato il consumo di marijuana a scopo medicinale. Appena stabilita la norma iniziarono a nascere i primi dispensari, luoghi simili a delle farmacie in cui la medicina di punta è la cannabis (o i suoi derivati) e i clienti sono più che altro pazienti (perlomeno in termini legali).
In un primo momento hanno operato praticamente senza controlli da parte delle autorità sanitarie, ma ben presto il Dipartimento di Salute Pubblica decise di prendere le redini della situazione e limitò a cinque il numero di pazienti che ogni stabilimento poteva rifornire. Ne è venuto fuori un bel casino, le associazioni della cannabis iniziarono a protestare e, in seguito a una lunga battaglia giudiziaria, riuscirono a far cadere questo provvedimento alla fine del 2007.
Passarono altri due anni, si cercò senza successo di recuperare la restrizione e si arrivò così, con il dibattito che era giunto ormai a un punto morto, fino al 2010, l’anno in cui finalmente si è iniziato a usare un po’ di testa in questa situazione. A quanto pare un decennio prima, quando hanno tolto il divieto, non si fermarono a pensare che sarebbe potuto nascere un nuovo mercato, quello della marijuana medicinale, con il potenziale per trasformarsi in un vero e proprio settore economico. Ma così è stato, e ora era necessario stabilire delle norme.
La grande crescita che ha aperto il vaso di Pandora
Nel 2010 si stabilirono le regole del gioco. Si mise in atto un sistema di licenze che obbligò coltivatori e padroni di stabilimenti ad associarsi. Fino ad allora, i primi avevano operato come dei privati che iniziavano a coltivare marijuana in modo informale e vendevano la loro produzione ai dispensari o direttamente ai clienti, direttamente o attraverso dei servizi di consegna. Con la nuova normativa, questo non fu più possibile.
Da quel momento i coloro che si dedicavano a coltivare cannabis avevano bisogno degli imprenditori, che erano in possesso della licenza per vendere, e gli imprenditori avevano bisogno di quelli che erano esperti nel coltivare marijuana, perché la legge li obbligava a produrre almeno il 70% di quello che vendevano. Alcuni avevano l’esperienza e le conoscenze, altri i soldi e i punti vendita. Potrebbe sembrare una questione di sinergie, ma era più che altro una simbiosi forzata, necessaria alla sopravvivenza e che, in molti casi, avrebbe portato delle sgradevoli conseguenze.
In un primo momento, comunque, tutto sembrava procedere regolarmente. Il rigoroso controllo statale allontanò i federali e mise da parte la paura per le loro retate, generando un clima di stabilità propizio per far sì che il settore alla fine diventasse professionale. In molti furono coloro che ruppero gli indugi e decisero di diventare imprenditori, di richiedere le licenze, aprire i negozi… Era la tipica quiete che precede la tempesta.
La “febbre” del 2011
Con l’arrivo di nuovi attori, il mercato della marijuana a scopo terapeutico divenne fortemente competitivo, soprattutto per l’effetto di un’altra delle novità della norma del 2010, che metteva in relazione il volume di produzione consentito al numero di pazienti registrato. Gli imprenditori applicarono una logica semplice: era necessario attirare più pazienti per poter produrre più erba e guadagnare più soldi. Logico.
Quello che non sapevano è che tale logica, che avrebbe funzionato alla perfezione per vendere scarpe o orologi, non era così semplice da applicare con la cannabis. I loro soci coltivatori cercarono di spiegarglielo: per produrre più marijuana non basta accelerare i passaggi della catena di montaggio. È un procedimento delicato, che dura sei mesi e che dipende da almeno due fattori fondamentali: la luce e lo spazio.
Per coltivare più piante bisogna affittare impianti più grandi e acquistare dei costosi sistemi di illuminazione artificiale, che mandano i costi alle stelle. Se così non fosse, la qualità del prodotto ne risentirebbe. Quindi, socio, è impossibile produrre più marijuana e per di più abbassare i prezzi, come vorresti tu. Qui i tuoi dogmi capitalistici non funzionano.
Ma dovevano funzionare, perché non c’erano altre soluzioni. Avevano promesso ad affittuari e fornitori che avrebbero pagato non appena fosse pronto il raccolto e l’avessero venduto, ma c’era solo un modo per fare soldi in un mercato così competitivo: tirare sui prezzi, aumentare i pazienti e di conseguenza anche la produzione. Nel perfetto stile dei negozi “Tutto a un euro”: il margine di guadagno è piccolo, ma si vendono grandi quantità e alla fine ci si guadagna.
Furono in molti a farlo alla fine, portandosene dietro anche altri, e questi a loro volta se ne portavano dietro altri ancora, e così, in effetti, ottenevano più clienti, perché ci sono persone che preferiscono pagare poco per un’erba mediocre che spendere più soldi per comprare un’autentica marijuana. Si lasciarono trasportare nella voragine e non furono in grado di accorgersi che stavano facendo colare a picco il business. Così scoppiò nel Colorado la crisi della marijuana, nel 2011.
Contrabbandieri e sopravvissuti
I prezzi continuavano ad abbassarsi e a molte piccole e medie imprese del settore non conveniva più produrre a costi così alti per vendere poi a prezzi così economici, quindi i tempi della clandestinità e del contrabbando iniziarono a tornare. Negli stati vicini, in cui la marijuana era totalmente proibita, molta gente era disposta a sborsare grandi somme di denaro per comprare della marijuana di bassa qualità. Nel mercato nero si paga il prodotto, ma anche il fattore di rischio.
Alcuni ci hanno provato e sono caduti tra le grinfie dei federali, altri chiusero perché le perdite erano insostenibili... Ciò che è accaduto è che quelli che avevano scommesso per la formula “Tutto a un euro” sono caduti a picco, lasciando il mercato nelle mani di coloro che, grazie al buon senso, avevano scommesso per la formula di vendere a più caro prezzo e mantenere l’integrità.
Finora non gli è andata male, ma è nel 2014 che raccoglieranno i veri frutti. La marijuana a scopo ricreativo è già legale nel Colorado e in molti paragonano lo scenario che sta per verificarsi con quello della fine del proibizionismo negli USA. Inoltre, ci si aspetta che prenda il volo anche il turismo relazionato con la cannabis, e c’è chi parla di Denver come della nuova Amsterdam.
E questo non è, neanche lontanamente, la cosa più importante. Gli imprenditori della regione sono diventati un esempio per gli imprenditori che cercano di aprirsi un mercato in altri luoghi, dentro e fuori gli Stati Uniti. Li pagano per imparare dai loro errori, ma anche per replicare i loro successi. E non c’è prova migliore del fatto che la marijuana sta meglio nei negozi che nel contrabbando in Colorado, dove alla fine hanno vinto i buoni. Che ti aspettavi. In fondo è un film americano.
Sean Azzariti, veterano della guerra in Iraq, è il primo ad acquistare marijuana (Bubba Kush) a scopo ricreativo in Colorado per un totale di 50 dollari. Puoi trovare questa varietà nel nostro negozio.
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